giovedì 30 giugno 2011

IL MARE DEL NOSTRO SCONTENTO di Roberto Mutti

Il Mare di Mezzo, questo è il nome con cui in tutte le lingue dei paesi che
vi si affacciano viene chiamato il Mediterraneo, circonda ma non separa,
unisce e non divide, avvicina anche quando sembra separare. Sulle sue coste
si sono affacciate le più straordinarie civiltà di una antichità che ha
lasciato segni indelebili su quella che è ora la nostra, perché quel mare è
stato sempre e per tutti non un  ostacolo ma una sfida che ognuno ha voluto
vincere a modo suo. Gli Egiziani, pur abituati alle più placide acque
fluviali, lo hanno attraversato con barche solo apparentemente fragili fatte
di canne, i Fenici venuti da lontano vi sono scivolati rapidi e silenziosi,
i Sardi lo hanno saggiato prudenti, i pirati combattuti da Pompeo ne hanno
abitato gli anfratti, i Cartaginesi ne hanno sfruttato le potenzialità, i
Romani lo hanno semplicemente fatto loro. Solo i Greci lo hanno davvero
capito: dapprima indagandolo nel profondo per creare una rete di commerci,
poi trasformando la loro esperienza in una trappola per attirare le navi
persiane, e sconfiggerle, negli stretti spazi di Salamina. Sono loro ad aver
raccontato su quel mare storie bellissime intrecciate ai miti più suggestivi
che ancora ricordiamo quando le onde che penetrano nelle cavità delle rocce
evocano l’urlo mostruoso di Scilla e l’acqua che si solleva minacciosa
sembra spinta dall’ira di Posidone.  Ma il Mediterraneo è anche quel mare
che delinea la bellezza di un orizzonte dove spesso, in lontananza, si
intravedono i profili di altre terre, lontane quanto basta per sognarle ma
sufficientemente vicine per immaginare di poterle raggiungere. Per questo
Odisseo non è la storia di un personaggio ma quella di tutti quanti sanno
alternare il timore e il confronto, il rispetto per la natura e la voglia
d’avventura, la riflessione attenta e la sfida aperta. Da tutto questo nasce
quel complesso rapporto rinsaldato dal commercio grazie al quale abitudini
alimentari e consuetudini sociali, tradizioni culturali e innovazioni
tecnologiche si diffondono rendendo permeabili i confini. Le analogie sono
più evidenti delle diversità perché ogni città di mare ha un intrico di
strade così costruite per evitare che il vento le flagelli, ogni insenatura
degli spazi per tirare a secco le barche, ogni costa torri di avvistamento,
ogni porto arsenali per riparare le navi e bettole per rifocillare i
marinai. Poi c’è la storia bellissima del sabir, la lingua franca (dal
catalano saber, sapere) usata per secoli nei porti del Mediterraneo: nessuno
l’aveva codificata, nasceva semplicemente dalla fusione dialettica di
termini, strutture grammaticali e cadenze di provenienza greca, occitana,
siciliana, sarda, latina, araba, catalana, spagnola, veneziana, genovese,
turca. Una vera e propria torre di Babele di segno opposto dove tutti si
capivano, sia che si scambiassero informazioni sui nuovi approdi sia che si
maledicessero dalle rispettive murate prima di una battaglia.
E’ la ricerca delle antiche e grandiose civiltà mediterranee a dare origine
al Grand Tour che, per chi poteva permetterselo, era un viaggio di
formazione dove ogni realtà veniva idealizzata (i contadini siciliani
avevano poco a che fare con la Magna Grecia, la campagna romana ignorava più
che conservare le tracce architettoniche dell’Impero) ma anche riscoperta.
Quando, a metà Ottocento, ai disegni realizzati dai viaggiatori si
sostituirono le fotografie che si potevano comperare in loco, un nuovo
immaginario collettivo iniziò ad imporsi ed era fatto di una realtà più
concreta e, forse per questo, ancor più bella perché autentica dove si
mescolavano le tracce delle antiche civiltà, la realtà sociale dei
contemporanei e la maestosità dei paesaggi. Da allora l’obiettivo dei
fotografi è come se si fosse fatto carico di sintetizzare nella
contemporaneità la stratificazione della memoria storica perché riprendere
il Mediterraneo significa acquisire una sorta di inconscio visivo che
riemerge prepotentemente nelle immagini ed è subito percepibile. Se tutto
ciò era evidente nelle opere del passato, lo è a maggior ragione in quelle
contemporanee che fruiscono di una riflessione più attenta e degli esiti di
una ricerca che tende ad arricchire il linguaggio fotografico di una forte
valenza non solo estetica. Ne è riprova questo panorama di autori fra di
loro diversi per età, formazione, scelte stilistiche eppure tutti
accostabili nella comune ricerca di segni, significati, valori.
Quando i fotografi si accostano alle persone per farne i loro soggetti
prescelti non possono che interrogarsi sulle identità ed è probabilmente per
questo che è facile imbattersi in figure che si muovono indefinite nello
spazio bianco, primi piani dai caratteri appena accennati o dai cromatismi
labili, uomini e donne che passeggiano anonimi e veloci sulle strade magari
calpestando antiche pietre. Per altri l’identità la si ritrova, invece, nel
rapporto spesso sottolineato con la natura, nell’orizzonte concluso degli
interni delle case, nel ritrovarsi nei luoghi di lavoro non importa che
siano un negozio o una cava, nel poter constatare – nelle immagini
convenzionali delle fototessere – con quanta mescolanza di etnie ancora una
volta il Mediterraneo fa i conti. Poi lo sguardo corre rapido all’orizzonte
e qui si percepisce, nell’uso di cromatismi delicati, nell’attenzione alla
composizione, nella ricerca delle architetture che caratterizzano spiagge e
arenili, nella sottolineatura di situazioni insolite, nella bellezza
straniante dello spazio vuoto, la lezione di Luigi Ghirri che anche ai
giovani ha lasciato spunti e suggerimenti per osservare il paesaggio con
occhio insieme rigoroso e fanciullesco. Poi però, basta gettare lo sguardo
un po’ più in là ed ecco in tutta la sua contenuta maestosità un  mare che
si muove fra gli scogli, disegna la linea dell’orizzonte, fa sentire la sua
costante presenza che, quando non si vede, si indovina. In altri casi emerge
un richiamo al passato che si coniuga nell’accostamento fra l’archeologia
antica che qui rimane sullo sfondo e quella del presente fatta di brutti
palazzi precocemente invecchiati, muri, case e strade deserte come fossero
state già abbandonate, fabbricati incompiuti, edifici che mostrano le loro
strutture parzialmente demolite del tutto prive di fascino. Accanto a questa
dolorosa ma indispensabile parentesi, torna a sentirsi la ricerca del senso
del mistero: lo si trova negli interni di case con mobili, specchi, letti,
muri che sembrano conservare frammenti di memoria, lo si coglie nei rituali
capaci di riproporre il senso di una spettacolarità che nei matrimoni sa
essere autenticamente teatrale. Alla fine emerge quell’antico senso
dell’ignoto che non ha mai abbandonato questo mare: lo si coglie nelle
immagini di certi vecchi edifici deserti con le finestre affacciate sul
mare, nell’inquietante sequenza del cimitero di pescherecci arenati e
piegati su un lato, nell’obiettivo che scruta da vicino la forma dei pesci
alla ricerca dell’insolito e, talvolta, del mostruoso. Perché, allora come
oggi, il Mediterraneo resta soprattutto una dimensione in cui immergersi,
uno specchio in cui riconoscere la nostra natura di uomini alla ricerca
della conoscenza.    

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